Nelle sabbie mobili del Motovelodromo Appio i primi calci tra bici e moto

16/03/2012 alle 10:05.

IL ROMANISTA (M. IZZI) - Assieme al Pro Roma, l’Audace Club Sportivo è una delle Società meno ricordate tra le cofondatrici della Roma. In primo luogo in quanto nel 1927 era già addivenuto ad una fusione e pertanto il suo nome seguiva quello dell’Alba (facendo nascere per l’appunto l’Alba-Audace che vide la sua attività nella sola stagione 1926/27), quindi perché sono pochi i calciatori dell’AS Roma che abbiano effettivamente vestito la maglia dell’Audace. Al club biancorosso, però, va in pieno il merito di aver guidato la Roma nel suo primo impianto di gioco, il Velodromo Appio.

Attivo sin dal 1910, l’Appio aveva ospitato le apparizioni dell’antico sodalizio romano sin dal 1912, dopo una pausa, l’Audace c’era ritornato nel 1923, quando il Comune aveva revocato la concessione alla Rondinella-Parioli. Nel gennaio 1926, l’Audace, guidata da Felice Tonetti, si rese protagonista dei lavori di rifacimento dell’impianto che venne dotato di una “solida rete metallica” che separava il pubblico (la capienza era stimata attorno ai 10.000 posti), dagli atleti. Sotto la Tribuna Centrale c’erano locali ampi che erano stati a disposizione per gli spogliatoi, le docce e i vari uffici. Nonostante questo, la situazione era tutt’altro che ideale, la zona (in quegli anni, s’intende) era di estrema periferia. La partita di calcio era ancora un avvenimento esotico, da gita fuori porta, da affrontare con pasto al sacco. Sarebbe profondamente errato dire che il calcio era un corpo estraneo alla à, ma lo era senz’altro per gli strateghi dell’urbanistica e per i suoi amministratori. Il calcio, non a caso, finì assieme alle corse di bicicletta e di moto. Quelle corse “pericolose”, cioè, che era meglio tenere lontano dalla brava gente che andava a passeggio o a comprare le pastarelle a Via del Corso; in fondo anche quei ragazzotti in mutandoni correvano, cercando come dei forsennati d’impossessarsi di una palla e il rischio di farsi male, in fin dei conti, ci doveva pur essere. Aggiungiamo anche che il campo dell’Appio era in terra e sistematicamente s’impossessava del perimetro di gioco e degli spalti un polverone infame. Se poi si metteva a piovere, le pozzanghere assumevano la consistenza di sabbie mobili. Nonostante questo, nel 1927, l’Appio era l’impianto che forniva alla Roma le maggiori garanzie, sia per ospitare il pubblico, che per garantire un efficiente deflusso al termine della gara. Del resto, il campo della Fortitudo-ProRoma alla Madonna del Riposo non era neanche da prendere in considerazione. Inadeguato per la Fortitudo, non era proponibile per la Roma. L’AS Roma si apprestò così a vivere le sue prime gare al Motovelodromo, consapevole che si trattava di una scelta più che transitoria. Il Club aveva infatti rilevato il progetto di un nuovo campo da realizzare a Testaccio che era stato ideato e avviato proprio dalla Fortitudo. Questo impianto voluto del Club di Borgo, sarebbe dovuto sorgere accanto al Magazzino Selci. Italo Foschi e gli altri dirigenti giallorossi si resero immediatamente conto degli enormi vantaggi che un simile passaggio avrebbe garantito. Testaccio non sarebbe stato “sperduto” all’Appio (nell’ottobre del 1927, nei giorni di gara c’erano solo 10 corse che collegavano Porta San Giovanni con lo Stadio), ma avrebbe posto le radici in uno dei “nuovi” quartieri di Roma, in piena e poderosa esplosione demografica. Lo snodo tramviario alla Piramide (la mitica Circolare Rossa, o 18 rosso, era accompagnata da: 5, 11, 15, 18 nero, 21, 22, 37, 38, 44... ) avrebbe garantito ulteriori, facili collegamenti.

Il gioiello di Testaccio (inizialmente in terra, quindi, finalmente, attrezzato con uno dei manti erbosi più belli d’Italia) aveva due insidiosi tarli. La Lupa lo rilevò solamente in qualità di affittuario dal Governatorato di Roma (che con un contratto capestro si era riservato il diritto di ritirare la concessione in qualunque momento avesse ritenuto opportuno farlo), inoltre, la sua capienza, ancora una volta era limitata (inizialmente 15.000 posti) e per giunta con un ristretto “autoparco”. Per quanto riguarda lo Stadio Flaminio si fa fatica a parlare di scelta. La Roma vi ha saltuariamente giocato sin dalla stagione 1928/29 e vi ha vinto uno scudetto, ma si è trattato sempre di una scelta di ripiego, come dopo la demolizione dello stadio Olimpico in vista dei mondiali del 1990. Allo stesso modo l’Olimpico, prima visionaria e un po’ megalomane incarnazione del mai realizzato “Foro Mussolini”, quindi stadio “dei centomila” allestito per le Olimpiadi, venne “abbracciato”, ma non “scelto” dalla Roma. A quanto sembra, dopo più di 80 anni da Testaccio, il tempo delle scelte sta tornando a profilarsi.

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