Lubrano: "I Sensi non ci hanno rimesso con la Roma, se vendono rientrano di tutto"

11/10/2009 alle 14:52.

IL ROMANISTA - E’ stato al servizio di Franco Sensi dal ’93 al 2000. Consigliere di amministrazione e avvocato della Roma, oltre che luminare del diritto amministrativo, ordinario alla Luiss ed ex presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, Filippo Lubrano, 70 anni, qualche giorno fa ha preso carta e penna e ci ha scritto: «Caro Direttore, vorrei chiarire certi problemi della dirigenza della Roma, che sulla Roma non dovrebbero ricadere». Perché Rosella Sensi dice: «Papà non ha mai preso dalla Roma, ma ha sempre dato». Invece, Lubrano non pensa che alla fine i Sensi ci rimetteranno nulla. Quando lo incontriamo, via Parenzo brulica di aspiranti dottori in Giurisprudenza. Alla Luiss è quasi l’ora del brunch, mica del pranzo.

LA RICOSTRUZIONE La sua ricostruzione abbraccia la gestione societaria nel periodo in cui è stato nel cda romanista. Ovvero, fino al 2000. Fino all’ingresso della Roma a Piazza Affari. Uno spartiacque fondamentale. «Sensi ha comprato la società per 100 miliardi (50 per liquidare Ciarrapico, 50 a Mezzaroma, ndr). Diciamo che poi ne ha spesi altri 150 fino al 2000. Perfetto. Con la quotazione della Roma, Sensi ha immesso sul mercato 13 milioni di titoli, il 29% del pacchetto azionario. E ha così incassato 170 miliardi di lire. Denaro che è andato parzialmente a reintegrare gli investimenti degli anni precedenti. Ma non solo, e qui arriviamo al passaggio chiave. Quotando la Roma, l’intero pacchetto azionario è stato valutato 554 miliardi. Detratti i 170 miliardi acquistati dal mercato, ai Sensi è rimasto un valore in azioni di oltre 300 miliardi (384, per la precisione, ndr)». Azioni che si sono deprezzate quasi subito. «Ma solo per i piccoli azionisti - avverte Lubrano -, non per la proprietà. Per i Sensi, i due terzi della Roma valgono sempre la stessa cifra. Ovvero, più di 300 miliardi di lire. Che poi sono quasi 200 milioni di euro». Spieghiamo. È chi vende che fissa il prezzo. Chi vuole la Roma, deve spendere il valore che nel 2000 era stato determinato per i due terzi dei Sensi. Appunto, 380 miliardi. «Intendono recuperare - sottolinea Lubrano - il più possibile. Vendendo a un prezzo superiore ai 200 milioni di euro, la famiglia rientrerebbe ampiamente di tutto quello che ha speso per la Roma».

ITALPETROLI «Qui sta passando l’idea che i Sensi si siano rovinati per la Roma». Per l’avvocato è sbagliato accostare la posizione economica di Italpetroli a quella della Roma. Nella lettera faceva notare: «La famiglia Sensi non può utilizzare il pacchetto azionario della Roma come difesa nei confronti delle altrimenti inevitabili azioni esecutive della principale banca creditrice». Nel tête-à-tête alla Luiss, il professore è ancora più esplicito: «L’esposizione debitoria di Italpetroli non dipende certo dalla Roma. Ma da alcuni investimenti che non si sono rivelati redditizi». Lubrano si domanda: «Se si fosse trattato di un debitore normale, quanto presto avrebbe fatto Unicredit ad agire?».

NEL CDA Ma come era stato il rapporto tra Sensi e Lubrano? Burrascoso, ma felice. Spiega il professore: «Quando subentrò nel 1993, io ero già nel cda della Roma. Mi ci aveva portato Ciarrapico, all’epoca mio cliente per l’Ente Fiuggi. Sensi era innamorato della Roma, ma aveva un temperamento forte. Era un padre-padrone. A volte, procedeva da sé anche in circostanze in cui sarebbe stato preferibile consultarsi con un esperto. Un esempio? Il contratto di Felipe Jorge Loureiro era un pezzo di carta scritto a mano da Franco Sensi, dove veniva stabilita una somma di 50 mila miliardi per il trasferimento. Un errore, ovvio. Ma il problema era un altro. Sensi non aveva sentito la necessità di informare nessuno dei suoi avvocati. E dire che non c’ero solo io nella Roma. Era fatto così». Il divorzio si consumò tra la fine del ’99 e la primavera del 2000. «Sensi voleva rendere il cda un organismo a composizione familiare. Dentro le figlie, fuori gli altri». Sono nove anni che l’avvocato non ha più nulla a che fare con la Roma. Oddio, qualcosa è rimasto. Una causa da due miliardi di vecchie lire. «È solo la parcella per otto anni di lavoro e centodiciannove questioni trattate».

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