«Volevano uccidere il tifoso del Napoli»

26/07/2016 alle 14:03.
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IL TEMPO (V. IMPERITURA) - Era un agguato: pensato e messo in piedi da un gruppo di ultras della Roma per pestare qualche tifoso del e finito col costare la vita a Ciro Esposito, giovane di Scampia, morto ammazzato dopo più di 50 giorni di agonia in un letto del Gemelli. I giudici della terza corte d’Assise di Roma ne sono certi e, nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Danielino a 26 anni di reclusione, spiegano come si siano svolti i fatti in quel pomeriggio prima della finale di coppa Italia tra il e la . non era solo: «la presenza di uomini nascosti nella stradina che conduce al Ciak Village che attendono i tifosi napoletani che inseguono il lanciando loro contro bombe carta e ogni sorta di sassi e oggetti vari è certa – scrivono i giudici – è certo che i soggetti nascosti alla vista della tifoseria napoletana fossero ultras romanisti, essendo la tifoseria romanista ostile a quella napoletana per fatti risalenti nel tempo, con atti violenti».

Secondo la ricostruzione dei giudici (ma l’imputato ha sempre negato la circostanza, affermando più volte di essere sempre stato solo) l’ex ultras che fece interrompere un derby del 2004 inventandosi la storia che un bimbo era stato investito da una camionetta della polizia era arrivato nella stradina del circolo con la ferma intenzione di fare da esca: un piano «che nel suo progetto folle, doveva concludersi con il pestaggio dei tifosi napoletani che erano corsi ad inseguirlo dentro il vialetto, là dove sarebbe stato spalleggiato da almeno sei individui non identificati che ovviamente, alla vista della moltitudine dei tifosi napoletani accorrenti non hanno potuto fare altro che scappare».

«HA SPARATO NEL MUCCHIO» - E se non era solo, è certo anche, sostengono i giudici, che è lui ad essere uscito di casa con la pistola: la versione fornita dall’imputato secondo cui sarebbe stato lo stesso a strappare l’arma ad un energumeno che, tenendola per la canna, lo aveva colpito in testa, non è stata ritenuta credibile: «c’è da considerare che chiunque porti con sé una pistola, mai la brandirebbe per la canna carica e col colpo in canna per colpire qualcuno, essendo elevatissimo il rischio che così facendo faccia partire un colpo diretto proprio contro di se». Fu Danielino quindi a portare l’arma con sé, e fu lui a estrarla e a sparare quando Ciro Esposito lo raggiunse correndo da Tor di Quinto (sette secondi tra la corsa per coprire i 50 metri che li separavano e l’inizio della sparatoria). Rimasto solo e ormai raggiunto dagli stessi tifosi che aveva provocato con l’aggressione all’autobus, «estrae la pistola e spara quattro colpi ad altezza d’uomo e smette di sparare soltanto quando questa ha esaurito i colpi nel caricatore. Quando spara – annotano i giudici nel dispositivo – ha di fronte a se un gruppo di inseguitori, che gli sono addosso; è evidente che, se con quattro colpi il coglie cinque volte il bersaglio, la sagoma degli aggressori doveva essere abbastanza compatta e ristretta di fronte a lui. Quindi spara nel mucchio ad altezza d’uomo, sempre all’altezza di organi vitali». Subito dopo gli spari poi – ormai ha un numero imprecisato di tifosi napoletani addosso – Fioretti, uno degli imputati condannati per rissa, avrebbe strappato la pistola di mano a , colpendolo alla fronte. Nonostante la ferita in testa e la frattura alla gamba, tenta comunque di «sottrarsi alla rappresaglia dei tifosi napoletani che a più ondate si sono riversati nella stradina infierendo selvaggiamente, anche con le cosiddette «puncicate» su di lui, ormai inerme e steso al suolo dopo la caduta».

Non è credibile quindi secondo la corte la versione sostenuta da che, durante una udienza molto tesa, aveva raccontato di essersi unicamente difeso dall’aggressione dei tifosi napoletani e di avere sparato per disperazione solo quando ormai era stato sopraffatto dagli ultras inferociti: nel suo caso, annotano i giudici, vanno considerati come aggravanti «la scelleratezza della condotta e la forte intensità di dolo».

UN PROCESSO UNICO - «La corte non può non rilevare – si legge nella sentenza – come nelle cronache degli scontri tra tifosi avvenuti in patria, la tragica vicenda per cui è processo è un unicum, prima inaudito. In altri episodi mai si è fatto usi di armi da fuoco, giungendo al massimo all’uso del coltello, mai usato per uccidere, bensì sempre solo per le ìpuncicate”». Nel commentare la sentenza, il difensore di Danielino , l’avvocato Tommaso Politi, ha annunciato ricorso in appello e ha rimarcato che «tra testimoni palesamente reticenti e periti imparziali, i giudici hanno ritenuto più credibili i primi. Resto convinto che il condizionamento mediatico sia stato purtroppo determinante». Si chiude così (con un morto e una condanna a 26 anni di carcere) l’ennesima pagina nera del calcio italiano, sacrificato alla violenza su uno stradone di periferia.

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